Lettere, estratti, saggi, spezzoni di emissioni radiofoniche. Forse è qui, più che nelle opere compiute, che ci viene restituito il peggio di Antonin Artaud – deliri, paranoie, sconcezze. Ma il suo peggio rappresenta anche il meglio della sua produzione. In questi testi scritti con ferocia, tra una sbavatura e una bestemmia, vediamo insieme al radicalismo del suo pensiero anche tutte le incertezze, tutte le esitazioni di un artista che tenta di liberarsi dalle maglie del linguaggio, dalle frontiere della grammatica, quindi dal mondo, dalla nazione, dalla società, dall’identità, rovinando inevitabilmente verso la “follia”, il dispositivo biopolitico per eccellenza. A partire dalle lettere con Jacques Rivière e ai rappresentanti istituzionali – per legalizzare le droghe, per abolire i manicomi –, agli scambi con amici e nemici sulle questioni più alte e più basse dell’esistenza, fino a quelli, spesso minacciosi, con i medici e i direttori dei manicomi. Siamo di fronte alla caduta, o all’ascensione rovesciata, di un uomo: al suo personalissimo Golgota. Artaud, martire, nemico giurato di Dio, creatura ingenerata («io sono Antonin Artaud, mio figlio, mio padre, mia madre e me»), mai nata, che perciò non può morire. Solo qui, tra le grida di queste lettere, vediamo il surrealismo in una dimensione purissima, distillata: quella extra-letteraria, che sopravanza lo scritto, che eccede la lingua, che non si ferma all’esercizio di stile, all’«opera», all’ideologia, ma affonda, o meglio esplode, palpitante e febbrile, nella vita.