La censura, l’intolleranza teorica, le persecuzioni «ideologiche» sono avanzi feudali che la borghesia ha ereditato dall’ancien régime: in piena età borghese a nessuno più importa di cosa il singolo scriva. Massima tolleranza vuol dire massima indifferenza e massima sicurezza.
La rivoluzione o è totale o non è. Come un lampo nel cielo deve irradiare di luce tutto ciò che la circonda per poi dissolversi nel nulla, passato il suo tempo. Prima che il gioco della lotta diventi procedura burocratica, il movimento apparato e il rivoluzionario un funzionario. È questo il monito lasciato da Mario Perniola, che ritroviamo nei suoi saggi più incendiari – smarriti dal tempo e qui pazientemente riuniti dal suo ultimo allievo, Enea Bianchi. Muovendosi con disinvoltura tra l’urbanistica e la teoria dei media, l’estetica e la politica, Perniola vuole infrangere la campana di vetro della noia e dell’apatia sotto cui prolificano la cultura borghese e le istituzioni-simbolo della sua controrivoluzione permanente: le accademie, i laboratori, i musei, ma anche gli stessi libri, sepolcri del conformismo, dove assistiamo alla parcellizzazione della cultura, alla frammentazione delle arti, al divieto alla vita. Compito del pensatore – indistinguibile dall’artista – è quello di padroneggiare l’arte del détournement: stravolgere le abitudini, dissacrare i valori dominanti, ricavare nuove pietre d’angolo dalle macerie delle architetture che abbatte. Soprattutto, introdurre l’idea della morte: quella che la cultura borghese, nel suo capriccio enciclopedico e nell’ossessione per l’immortalità dell’Opera a scapito della vita, vorrebbe in ogni modo rimuovere.
Questi saggi giovanili, finora introvabili, garantiranno a Perniola il plauso e la stima di Guy Debord, nonché l’ingresso a pieno titolo nel movimento situazionista.