«E ora mi ritrovo qui a giocare con lamia anima, solo in disparte. Il ragno del tempo antico non ha ancora finito di tessere la sua tela. E noi, involucri vuoti, voliamo nel nulla della nostra mente, non abbiamo più il tempo per commemorarci nell’ultimo addio. Tempo fermati, ti prego, ho bisogno di un po’ di vuoto»
Confessionale, sfogatoio, strumento di redenzione o dannazione: il diario è un genere letterario antichissimo, dove le parole scorrono in bilico tra l’autenticità e la menzogna, di fronte a se stessi – prima che agli altri. Quello di Daniele Leandri è il diario di un sedicenne nato nel 1960, alle prese con i problemi della sua generazione: l’amore, i soldi, la droga, le maglie troppo strette di una famiglia come tante. Questi taccuini arrivarono nel 1987 tra le mani di Marina Jarre, al tempo editor di Einaudi, che si accorge del loro valore letterario. A consegnarglieli è la madre del ragazzo e gli operatori del centro di assistenza ai tossicodipendenti che Daniele frequentava solo da qualche giorno, poco prima di morire per abuso di alcool e farmaci a un pronto soccorso della provincia torinese. Grazie al lavoro filologico della Jarre, che seleziona e ordina le pagine più significative dei quaderni che Daniele aveva redatto scrupolosamente negli anni, salvo i mancati giorni, entriamo nell’intimità di un ragazzo che più leggiamo e più ci rendiamo conto di conoscere: canzoni di Guccini e De André fanno da colonna sonora a una vita di sogni e deviazioni, alla gioia e all’incertezza dei primi amori e all’euforia dei primi buchi, ai tentativi di “adultità” con l’apprendistato in tipografia prima, e tra gli “apache” di periferia dopo, alla noia della leva militare, ai corsi e ricorsi lontano e verso la droga. Con la sua scrittura disadorna, secca, che si aggrappa a tutti i fatti, anche i più irrilevanti della quotidianità, Daniele abolisce la distanza che separa la letteratura dalla vita, a dimostrazione che alle volte la verità si posa su righe scritte male, in fretta e furia, disinteressatamente, quando a dettarle non è un motivo esterno, ma un’urgenza solo interiore, quella di sentire la propria voce, di parlarsi in uno specchio, di mentirsi, se necessario, per non sentirsi soli. È la forza del diario, di questo diario, dove anche la menzogna partecipa della verità.