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L’ideologia vendicativa

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L’espressione «woke» (dall’inglese «stare all’erta») si diffonde a partire dal secondo dopoguerra, nei movimenti per i diritti civili degli afroamericani. Si propaga poi nei Campus e nelle Università statunitensi, per salire all’onore delle cronache con le proteste del Black Lives Matter, in seguito all’omicidio di George Floyd, finché non diviene di uso comune con la Presidenza Biden e l’elezione della prima vicepresidente nera e donna della storia Usa. Alla wokeness fanno oggi riferimento sempre più associazioni e enti del terzo settore, sia negli Stati Uniti che in Europa, così come aziende e istituzioni che sostengono le cause dei gruppi etnici o sessuali ritenuti oppressi. Se per alcuni l’ideologia woke è una forma di apostolato civile, per altri rappresenta una minaccia. Nasce però con nobili propositi, prevedendo l’uso di un linguaggio più inclusivo, la tutela dei diritti delle minoranze, la decolonializzazione del passato e del sapere, il boicottaggio culturale, nonché la rivendicazione dei valori della queerness e la lotta radicale a qualsiasi forma di discriminazione. E tuttavia le sue modalità esecutive sono sempre più controverse. Dalle pratiche di “rieducazione” alla censura, da una logica e un buonsenso sacrificati a favore della soggettività e della sua autopercezione fino alla demonizzazione delle voci contrarie: il wokismo crea quello che Heinich chiama un “totalitarismo d’atmosfera”, promuovendo un’ideologia identitaria focalizzata sulla vittimizzazione delle minoranze. L’obiettivo però non è modificare il pessimo assetto sociale (tanto che le stesse multinazionali fanno delle sofferenze di alcune categorie discriminate una strategia di marketing), ma vendicare l’abuso subito, reale o percepito che sia, riservandosi al contempo i vantaggi nella sfera pubblica, privata e professionale garantiti dallo status di vittima. Nathalie Heinich passa in rassegna meticolosamente tutte le storture di questa ideologia, che volendo lottare contro le stigmatizzazioni, si è trasformata in una «stigmatizzazione inversa: non l’eradicazione rivendicata del dominio, ma piuttosto, ahimè, il suo rovesciamento vendicativo».
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